Anthony Genovese è uno Chef colto e sensibile che nel corso degli anni ha dimostrato professionalità e determinazione, vincendo non poche difficoltà. Cresciuto in Francia con l’orgoglio delle proprie origini calabresi, si forma oltre che Oltralpe in Oriente, dove lavora all’Enoteca Pinchiorri di Tokyo e al Mandarin Hotel di Kuala Lumpur in Malaysia. Tornato in Italia registra un grande successo al Rossellinis di Palazzo Sasso a Ravello nella Costiera Amalfitana e una forte delusione nella Capitale che però non lo scoraggia. La rivincita è Il pagliaccio, il suo locale nel centro storico di Roma in via dei Banchi Vecchi vicino a Campo de’ Fiori, dove propone una cucina audace e al tempo stesso ricca di significato, tecnica ed estro che in breve tempo gli fa conquistare consenso e la stella Michelin.
Ricercatore nato, dai piatti di Anthony Genovese traspare l’amore acquisito in Oriente per le spezie, gli aromi, le erbe, come nei tortelli di patate al caprino e acciughe con erbe aromatiche e sorbetto di pomodoro irrorati in tavola con acqua di pomodoro e tè verde. Passione per le spezie si, ma senza esagerazioni. Si tratta piuttosto di evocazioni, raffinate citazioni, espressioni dell’amore per altre culture e per il viaggio. Del resto già Hildegard von Bingen, la figura femminile più famosa del Medioevo, dedica ampio spazio a spezie ed erbe aromatiche nei suoi scritti (Physica), descrivendone le proprietà benefiche.
La carta delle vivande de Il pagliaccio è generosa di offerte, a partire dai tre menu degustazione da 4, 5 o 6 portate ai quali si possono abbinare varie degustazioni di vini al calice. Ogni piatto è un divertimento per la vista ancor prima che per il palato grazie al gioco di forme e colori che si inseguono e si fondono, come l’isola di crema estiva di riso con calamari posata su un’emulsione di mela verde e granita alla verbena o il girotondo che il maialino da latte intreccia con i funghi di stagione fritti e crudi e il dattero farcito con ricotta e menta. Piatto di grande finezza gustativa anche la pasta e fagioli con piedini di maiale (servita come appetizer!) e grande tecnica nella squisita animella, saporita citazione alla cucina romana tradizionale, presentata su un piatto in vetro la cui trasparenza ne richiama la consistenza eterea.
Tenace filo rosso delle proposte sembra essere la bellezza pura e fragile delle composizioni, secondo la lezione di Kawabata in “Bellezza e tristezza”. Molti piatti vengono infatti serviti a una temperatura che li rende immediatamente godibili ma che non concede procrastinazioni – ne è un esempio la sella di agnello con fico in tempura e purea di melanzane - come a ricordare che la bellezza è breve ed effimera. Estremamente curata è poi la presentazione, in un gioco scenografico che piacerebbe a un regista raffinato come Peter Greenaway.
Si finisce con l’altrettanto delicata piccola pasticceria e gli ottimi dolci di Marion Lichtle, compagna di vita e di lavoro le cui architetture golose giocano con frutti e fiori di stagione, come le nuvole di rosa al rosmarino che circondano il sorbetto di mela granny smith imprigionato fra sottili pareti di croccante di mandorle.
Minimalismo orientale anche negli arredi eleganti e moderni, ma non senza tocchi vivaci: un pagliaccio in bronzo posto nel salottino d’ingresso, le piastrelline colorate dei bagni, la stoffa viennese che dona una pennellata di rosso a una delle pareti della sala principale. Atmosfere intime e accoglienti rafforzate dal servizio attento e cordiale diretto dal maitre Daniele Montano e da una bella proposta di vini valorizzata da un sommelier competente e disponibile.
La via che ospita il locale è ricca di memoria e di palazzi storici, dal Cinquecentesco Palazzo Crivelli adornato da grifi e cariatidi, alla “Casa di Carlo IV” dove il re francese alloggiò quando, alla vigilia dell’incoronazione, trascorse alcuni giorni a Roma travestito da pellegrino, al palazzo di Rodrigo Borgia (poi Sforza Cesarini), testimonianza della predilezione degli Spagnoli per questa contrada al tempo di papa Borgia.
Un ringraziamento a Anthony Genovese e Daniele Montano per le fotografie delle sale.
“Settimo giorno del primo mese: dopo aver raccolto tra la neve appena disciolta un mazzo di fresche erbe, lucide e verdi, è piacevole poterle gustare in un luogo dove normalmente è impossibile trovarle” Sei Shōnagon, Racconti del cuscino
(Il Settimo giorno del primo mese era giorno di festa in cui si bevevo un brodo considerato un elisir di lunga vita ottenuto facendo bollire sette erbe primaverili: crescione, borsa di pastore, bietola, centonchio, rapa, rafano, foglie del loto)
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