Foto: DeLuxe plastic cutlery set, designers: Donata Paruccini - Fabio Bortolani, Pandora Design, Italy |
Mattatoio Pajata Saltimbocca alla romana Tozzetto
A Termine di origine laziale usato un tempo per indicare l’agnellino da latte destinato all’abbattimento per imbandire soprattutto le tavole natalizie e pasquali e oggi esteso agli agnelli che hanno iniziato a cibarsi di erba. È riconoscibile per il colore rosa chiaro della carne. Come rivela il nome, l’Amatriciana è un piatto originario non di Roma ma introdotto da Amatrice, un piccolo paese sulla punta estrema del Lazio in provincia di Rieti. L’Amatriciana nasce come preparazione dei montanari e dei pastori dei monti dell'Appennino centrale (una zona che include aree di Marche, Umbria, Abruzzo e Lazio) che insaporivano grossi spaghetti o altra pasta lunga senza uova con gli ingredienti poveri offerti dal pascolo: pezzi di lardo rosolati e pecorino. La versione con aggiunta di pomodoro si impose velocemente e la calorosa accoglienza offerta dalla città capitolina alla ricetta è testimoniata, oltre che dalla sua grande diffusione, dalla storpiatura dialettale che ha decapitato la lettera iniziale facendola diventare la matricina, mentre la versione in bianco prese il nome di “grigia”. I bucatini sono la pasta generalmente usata nella ricetta che include guanciale, cipolla, polpa di pomodoro, olio d’oliva, peperoncino e pecorino. Preparazione magistrale a Roma è quella de Parte delle interiora di un animale macellato costituita dal timo, ghiandola endocrina presente solo in giovane età e che gradualmente scompare. La gastronomia romana usa generalmente animelle di agnello e di vitello, che sono formate da due parti: la noce –o cuore- e la gola. La parte più pregiata è la noce, grossa e tondeggiante. La gola è invece composta da un corpo membranoso nel quale sono contenute le parti di animella. Le animelle devono essere lasciate per almeno 5 ore in acqua fredda per eliminare le tracce di sangue, e scottate poi in acqua bollente. Le noci vengono liberate dai filamenti nervosi e dalla pellicola superficiale e poste sotto un peso affinché assumano una forma regolare che ne faciliti l’impiego. Mestiere del fornaio.
B Cibo metà cotto e metà crudo, dolce e amaro, né caldo né freddo. L’aggettivo si estende anche alle persone, né giovani né vecchie, di mezza età. Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) Poeta dialettale romano o, come lo definì Saint-Beuve, pittore della vita romana. Nei quasi 2.300 sonetti scritti in dialetto romanesco rappresenta con satira pungente la Roma papalina della prima metà dell’800, mettendo alla berlina una società decadente, governata dal Papa re (er Viceddio) e da un ristretto numero di aristocratici che vessano il popolino, vero protagonista in quanto unico e sincero depositario della verità. Anche a tavola: "Vamm'a cercaun paese foravia Osteria, taverna di infimo ordine. Termine di origine laziale ormai diffuso in tutta Italia che indica una fetta di pane rustico abbrustolito, “bruscato”, sul quale si strofina a caldo uno spicchio d’aglio. Dopo essere state salate, pepate e condite con olio extra vergine di oliva, possono essere arricchite con pomodoro maturo tagliato a dadi. Me so’ aggiustato un piatto de bruschetta Giuliano Malizia, All’Osteria dell’illusione
C Nella cucina romana le “coppiette” sono le polpette. Vengono preparate con la carne cruda o, in versione economica, con il bollito. Nel linguaggio gastronomico la coda indica solo quella del bovino. La coda alla vaccinara è una ricetta tipica della cucina romana popolare che veniva preparata soprattutto a Testaccio e nel Rione Regola, abitato prevalentemente da vaccinari e concia-pelli, da cui il ritornello Le Regolante La coda veniva un tempo data ai mandriani come integrazione della paga e questi la facevano poi cucinare nelle osterie. Si prepara con l’aggiunta dei “gaffi”, ossia le guance del bovino e ha un accompagnamento obbligatorio: il sedano.
D Direttamente dal latino De gustibus non est disputandum, sui gusti non si discute. Oppure tutti li gusti so’ gusti, diceva quello che si soffiava il naso con due mattoni.
E Erba aromatica che deriva il nome dal fatto che la sua fioritura ha inizio a fine giugno, proprio in concomitanza con la festa di S. Pietro del 29 giugno. Nota anche come erba amara, viene usata nelle zuppe di verdura e nel minestrone.
F “Fà le nozze co li fonghi” è un proverbio romano che significa tentare grandi imprese senza avere i mezzi adeguati. Mentre oggi la parola dialettale “fongo” significa solo fungo, un tempo indicava il cappello maschile dalla tesa molto larga che per la sua forma ricordava appunto la cappella del fungo. La cucina romana fa molto uso di fritture e il fritto alla romana può essere “misto” oppure “scelto”. È quest’ultimo quello più raffinato e tradizionale e si compone di cervelli, animelle, schienali e carciofi ai quali si possono aggiungere fettine di fegato di vitello, pezzi di testina di vitello e del pane dorato. La preparazione è a base d’uovo sbattuto o pastella.
G Bibita a granita composta di ghiaccio grattato a mano finemente (mica tritato) e sciroppi alla frutta di vario genere. Viene servita in un bicchiere alto ghiacciato e con la cannuccia. Un tempo molto diffusa, oggi i Chioschi dove viene preparata sono rimasti pochi. Lodati quelli di Sora Mirella, sul Lungotevere degli Anguillara-Ponte Cestio e di Sora Maria, in zona Prati.
H Si può fare proprio lo sguardo che lo scrittore americano autore de La lettera scarlatta getta su cupole, obelischi e campanili alla vigilia della partenza da Roma, nel maggio 1859: “… sono andato a piedi al Pincio e ho guardato la città e Villa Borghese e San Pietro in una luce più mattutina di quanto avessi mai fatto”.
I Fatevi all’uscio, madonna dolciata I versi di questa Ballata del XIII secolo testimoniano, insieme ad altri documenti della stessa epoca, l’origine dell’insalata mista, anticamente chiamata insalata di mescolame o mescolanza e trasformata in “misticanza” dal dialetto romano. A Roma i frati cappuccini sono stati i precursori degli odierni verdurieri. Essi infatti, come compenso per l’obolo ricevuto dai benefattori, donavano loro una gran varietà di insalate: lattughella, riccetta, cerfoglio, barba di frate o erba stella, caccialepre, invidiola, ruchetta, pimpinella o erba noce.
J Ghianda. Dal latino ghuttus (gola), ghiotto, goloso. La jottoneria o anche jottonizzia, indica leccornia, golosità, ghiottoneria.
L Sbornia al cento per cento, ubriacatura.
M Mattatoio o ammazzatora È una pianta aromatica erbacea le cui foglie stanno alla cucina romana come il prezzemolo sta a quella nazionale.
N I nervi, i tendini e gli zampetti del vitello disossato che il macellaio regala al cliente affinché li aggiunga al brodo per renderlo più saporito. Lessati e conditi con salsa verde costituiscono una delle prelibatezze della cucina popolare romana.
O Scampagnate popolari tra le vigne e le osterie fuori porta, diffuse al tempo della Roma pontificia. Inizialmente le gite autunnali erano permesse solo il giovedì, per non distogliere i fedeli dai doveri religiosi festivi, ma poi furono estese alla domenica. A piedi, o con la carettella, la tipica carrozza a guscio di noce tirata da cavalli, i romani partivano vestiti a festa diretti ai prati di Testaccio, ponte Milvio, San Giovanni, porta Pia, San Paolo, Monte Mario e Monteverde che nella prima metà dell’Ottocento erano ancora coltivati a orti e vigne. Le scampagnate erano animate da orchestrine, giostre, alberi della cuccagna, corse campestri, canti, balli, stornelli. Si suonavano tamburelle, chitarrine e nacchere e si ballava il sartarello. Naturalmente c’erano vino e cibo in abbondanza e si mangiavano gnocchi, trippa e abbacchio, cucinato al forno o a scottadito.
P A Roma il termine indica la parte alta dell’intestino tenue del vitello, del manzo, dell’agnello o del capretto. Le paiate ovine e caprine non richiedono una preparazione particolare, mentre quelle di manzo e di vitello devono essere private del rivestimento esterno, tagliate a pezzi e legate con filo alle estremità, affinché la saporitissima crema interna non fuoriesca, e quindi lavate. La pajata ridotta in ciambelline legate col filo è l’ingrediente fondamentale per preparare un sugo e un primo piatto fra i più famosi della cucina romana, i rigatoni co la pajata, senza dimenticare la pagliatina di vitella alla cacciatora. I pazientini sono biscotti tradizionali che venivano preparati durante la Quaresima e che ancora si trovano, insieme ai maritozzi, nelle pasticcerie romane. Per la preparazione si impiegano farina, zucchero in polvere, chiare d’uovo, vaniglina e caramello. I biscotti vengono modellati a forma di palline schiacciate come grossi lupini o lettere maiuscole dell’alfabeto e prima di mangiarli si lasciano riposare un paio di giorni
In passato, dinanzi alla Basilica di S. Marco ogni primo di maggio si teneva il "ballo de li poveretti" al quale prendevano parte popolane e giovanotti dei vari rioni ma anche, con grande spasso dei romani, gobbi, storpi e vecchietti in vena di baldoria. La festa si svolgeva davanti alla statua parlante di Madama Lucrezia, ornata, per l'occasione, di collane di cipolle, capi d'aglio e peperoncini.
La Pizza ricresciuta è un dolce di Pasqua della cucina tradizionale romana. Ada Boni ricorda che un tempo si trascorreva tutto il Venerdì Santo a preparare la Pizza pasquale affinché fosse pronta per la benedizione del prete che arrivava nelle case “appena sciorte le campane”. La tavola veniva imbandita con candide tovaglie di Fiandra, mazzi di fiori primaverili come violetta e mimosa e vasi nei quali erano stati fatti germogliare al buio grano, orzo e lenticchia. Le leccornie consumate a Pasqua comprendevano agnello, “ova toste”, brodetto, salame tipo corallina ed erano dominate dalla gonfia Pizza ricresciuta preparata con farina, lievito di birra, zucchero in polvere, burro, cannella, sale, uova e dadini di scorzette candite. Forni e gastronomie romane la propongono ancora oggi.
Puntarelle
Q Oltre ai quattro quinti del bovino che contengono i vari tagli di carne, a Roma si usa da sempre la cucina del quinto quarto, vale a dire quel quarto di animale che rappresentava lo scarto, gli avanzi dei tagli dei macellai. Nel quinto quarto rientrano fegato, pajata, milza, polmoni, cuore, lombatello, testina e zampi di vitello, coda, granelli (testicoli), rognone (reni), animelle, schienali, torcioli (pancreas), trippa. Questi elementi, un tempo considerati “poveri”, oggi rappresentano ghiottonerie strettamente romane: coda alla vaccinara, milza in padella, animelle fritte, torciolo arrosto, testina al forno, rognoncino di vitella, trippa alla romana, fegato con le cipolle, linguetta di vitella in salsa verde e di bue in salsa piccante.
R Oggi è un comportamento da maleducati (anche se non in Giappone, pare) ma un tempo ruttare era un segno di gradimento che l’invitato emetteva al termine di un pranzo luculliano e se ciò non avveniva, l’ospite si sentiva offeso.
Una cosina semplice, come la definiva Ada Boni (fondatrice a Roma insieme al marito di una scuola di cucina per la nobiltà nonché autrice del Talismano della felicità), la cui preparazione prevede la rapida rosolatura di una scaloppina di vitello, guarnita di prosciutto e salvia. Il nome si riferisce alla sua appetibilità che la farebbe saltare dal piatto direttamente in bocca. Il blocchetto di lava vulcanica usato per la pavimentazione di molte strade romane. Fa l’infelicità delle donne coi tacchi e la felicità dei golosi che nell’antica gelateria Palazzo del freddo di Giovanni Fassi in Via Principe Eugenio all’Esquilino si vedono offrire piccoli semifreddi ricoperti di cioccolato modellati sulla forma del sampietrino. Oltre a ninetti, nrulletti, nicioni, caterinette… Bevanda romana fresca composta da latte di mandorle e miele. Il supplì, a Roma e nell’Italia centrale, consiste in una grossa crocchetta di riso. Ha sempre un cuore a base di mozzarella o provola e una panatura esterna composta da pastella e pangrattato. Fritto in olio bollente a 180 gradi, è diffuso ovunque, gastronomie pizzerie e tavole calde, con il nome di “supplì al telefono”, perché il ripieno di formaggio produce, fondendo durante la cottura, un filo. Sfiziosissimi i supplì di Pizzarium in via della Meloria, al Trionfale.
T Biscotto tipico del Lazio di lunga conservazione. Spaghetti a sezione quadrata fatti con farina di grano duro e uova. La voce dialettale romanesca deriva da “tondarelli”, ossia i “maccheroni alla chitarra” abruzzesi. Un classico i tonnarelli cacio e pepe. Tipo di pasta di semola di grano duro corta, bucata, incurvata e rigata a spirale. Prodotta sia artigianalmente sia industrialmente, è adatta a sughi densi.
U Nella cucina romana gli uccelletti di campagna sono l’equivalente di quelli che fuori Roma sono chiamati uccellini matti o uccellini scappati, termine ironico con cui si indicano gli involtini di manzo arrostiti allo spiedo, simili nell’aspetto a spiedini di uccellini.
V Chicco, granello, acino. Essere in un ventre di vacca in romanesco significa trovarsi nel benessere e godere di una vita comoda e lieta. Na setta de garganti che rameggia
Z Sono i piedini, le estremità delle zampe di agnello, vitello e maiale, anche se in senso stretto il termine dovrebbe riferirsi a quelle di maiale. La ricetta romana li propone lessati con sedano, carota, cipolla e chiodi di garofano e serviti tiepidi conditi con olio, salsa verde e uno schizzo di aceto. Una vera bontà. |
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