Si parte dalle bestialità commesse dagli uomini negli anni drammatici della guerra quando – scrive Marco Baliani, regista de La pelle – “milioni di esseri umani sono stati ridotti a oggetti, a cose, privati di identità e di anima”. Crudeltà registrate in maniera ancora attualissima da Curzio Malaparte per il quale La pelle è difesa primaria da parte degli esseri umani che “compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle”.

Si passa per il regista Peter Greenaway che nel film Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante rivela gusti forti e mescola banchetti raffinati e cannibalismo, sintesi e apice osceno di ogni fisicità divorata, come la malapartiana “bambina … distesa sulla schiena in mezzo al vassoio, sopra un letto di verdi foglie di lattuga”.
Infine l’evocazione della fame delineata ne La pelle e i sontuosi convivi del visionario regista inglese, si scontrano e incontrano nella cucina romana del Quinto quarto che trasforma in prelibatezze gli scarti, le parti di animale avanzate dai tagli dei macellai e che trovano una grande interprete nella chef Agata Parisella.

Fegato, pajata, milza, polmoni, cuore, lombatello, testina, zampi, coda, granelli, rognone, animelle, schienali, torcioli, trippa alimentano la cucina romana povera e popolare, nata a Testaccio intorno al Mattatoio, vicina alla cucina del Ghetto e rinnovata da chef sensibili come Agata Parisella che nel cuore dell’Esquilino, al ristorante Agata e Romeo, coniuga tradizione e innovazione creando un percorso storico e poetico tra sapori di antica tradizione romanesca e modernità.
L’esordio è affidato a un piatto nel quale le consistenze croccanti e acidule dei carciofi incrociano fatalmente quelle morbide e dolci dell’animella, “la ghiandola situata dietro lo sterno dei bovini e per via di questa sua collocazione paragonata a una piccola anima” scrive la chef in una bella pagina del libro “Agata e Romeo” pubblicato dall’editore Cucina & Vini, dove si ricorda come “alle animelle la tradizione popolare attribuisce prerogative afrodisiache propizie alle tenzoni amorose”. Il sommelier le avvolge nei profumi di frutti rossi e ciliegia del vino rosso che, vellutato e morbido, accoglie nella sua rotondità anche i rigatoni con la pajata, l’intestino tenue del vitello tanto amato dagli “scortichini”. Siamo lontani dal manifesto futurista che mette al bando la pastasciutta e la sapidità del piatto, per il quale Agata impiega la pajatina d’agnello, più delicata e digeribile, è irresistibilmente stuzzicante.

La trippa, piatto povero per eccellenza tradizionalmente cucinato il giovedì, è quella autentica alla romana, con menta e fagioli. Sfida l’appetito anche la parata di carnose pajatine d’agnello rosolate e abbinate con intelligenza alle acri puntarelle condite con la tipica salsa d’acciuga, il “pane del mare” dei vecchi liguri che dalla bagna cauda piemontese al Lazio spicca un saporito salto ben descritto da Nico Orengo.
Il capitolo dei secondi si chiude con il piatto simbolo della cucina povera: la coda alla vaccinara, un tempo cucinata soprattutto nel Rione Regola che pullulava di mandriani e conciatori di pelli ai quali la coda si dava come integrazione della paga. Quei “vaccinari” e “scortichini” che la portavano in osteria per farla cucinare, ai nostri giorni avrebbero un indirizzo sicuro nel ristorante Agata e Romeo dove la Coda alla vaccinara con purè di sedano rapa è il piatto dedicato da Agata Parisella ad Assaggi di Teatro. La accompagna un vino rosso che – spiega il sommelier – “si apre al naso a una declinazione di sensazioni verdi di peperone e pomodoro, coronate da tocchi di cannella e chiodi di garofano”, sapori speziati che nel piatto si mescolano con quelli dolci regalati da pinoli, uvetta e pregiato cacao.

Dopo le verdure in pinzimonio nell’olio nuovo, un sorso di vino smussa gli angoli dolorosi e puntuti della narrazione malapartiana e la sovrappone nella memoria alle descrizioni di un grande innamorato di Roma, Pasolini. La stessa energia violenta e cruda, lo stesso distacco di anatomista, la stessa passione dell’uomo vinto dal destino… ma questa è un’altra storia.
Maria Luisa Basile
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