Prima di varcare questa soglia golosa non bisognerebbe dimenticare di guardarsi alle spalle. Non per difendersi dall’uomo nero (magorabin, in torinese), ma per ammirare da una prospettiva nuova la vicina Mole Antonelliana. E, se c’è il tempo per una passeggiata sul corso propiziatoria all’appetito, per ammirare un’altra ardita opera archittonica dell’Antonelli nella quale lui stesso visse. Una casa gialla talmente sottile (uno dei lati è largo 70 cm) da essere soprannominata “fetta di polenta”. Fatta incetta di architettoniche stravaganze, si è pronti a lasciarsi stupire dalle sorprese di cucina creativa di uno chef che è torinese ma anche aperto al mondo, alle sue suggestioni, influenze, culture e prodotti.
Il quartetto di piatti della tradizione torinese (vitello tonnato, agnolotti ai tre arrosti, brasato e bonet) non manca mai, ma la cifra stilistico-culinaria dello chef è da cercare nelle proposte elaborate “a mano libera”, seguendo ispirazioni e influenze raccolte fra viaggi, incontri o più semplicemente ereditati dall’infanzia. La ricchezza di Torino è infatti anche questa: si può visitare l’Italia intera senza varcare i confini cittadini. Ancor prima dell’arrivo di spezie ed esotiche rarità diffuse dai migranti di oggi, c’è tutto un patrimonio di prodotti italiani di qualità portati in città durante l’espansione industriale del secolo scorso dagli immigrati provenienti dal Sud dell’Italia come dal vicino Veneto e che sin da bambini i torinesi hanno scoperto attraverso il rito della merenda a casa dei compagni di scuola. Da questo patrimonio emotivo attinge Marcello Trentini per risvegliare e amplificare le papille dei ricordi, anche con un golosissimo amuse bouche come il pan brioche biscottato insaporito, oltre che da burro e acciuga, da cipolle caramellate, in omaggio a uno dei simboli della cucina veneta.
Il sole squarcia la nebbia torinese anche in altri piatti simbolo del locale nei quali liguri scampi, siciliani gamberi rossi o provenzano fegato grasso incoronano succulente carni, dalla Ventresca di maialino da latte, alla lingua abbrustolita, alla coscia di bue battuta al coltello, in un riuscito connubio fra consistenze eteree e solidissime, morbide e croccanti, marine e di terra. Nei piatti si indovinano spesso fragranze, profumi, aromi di frutta, ortaggi, germogli di provenienza mediterranea o scoperti all’altro capo del mondo, da apprezzare anche per i viaggi salgariani che suggeriscono.
E se la creatività è un movimento perenne della mente e della fantasia, sperimentare diventa un’esigenza quotidiana. Nascono così alcune rielaborazioni di piatti sabaudi talmente "abusati", da non ricordare più come erano in origine. È il caso della Castellana, un filetto di vitello che la tradizione vuole tagliato a sacca e farcito con prosciutto e tartufi e che al Magorabin viene destrutturata dei suoi ingredienti di farcitura, scelti fra i più pregiati e portati all’esterno. Affondando il coltello nel cuore del piatto si scopre, come in un gioco di illusionismo trompe l’oeuil, che la candida polpa è quella di una cappasanta e che l’emulsione è di mela verde, quasi inconscio retaggio di un altro classico, il dolce-salato fritto misto piemontese.
Come nel fritto piemontese, anche in questa cucina non si butta via niente. Non mancano infatti eleganti citazioni dal Quinto quarto come le Animelle o i Ravioli di trippa con mentuccia e pecorino di romana eco se non fosse per l'aggiunta dei gamberoni.
Terminato il viaggio salato, arriva in tavola l'omaggio a un maestro, Mauro Uliassi, il cui tiramisù deve aver lasciato una traccia importante sulla formazione di Trentini, incoraggiandone la propensione ludica. Molti dolci sono una dichiarazione d'amore al cioccolato, dal Cremino al gianduja, al Cioccolato fondente e ravioli di melanzana, al Bon bon di cioccolato liquido e purea di fave. La predominanza dei colori bruni sembra un'ultima evocazione dell'uomo nero dell'insegna, con il quale si è giocato per tutto il tempo, per una volta non sotto il letto, ma sulla tavola.
© Maria Luisa Basile
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