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Il Mondo fluttuante e lo spettacolo dei sensi sulla tavola di Iyo

Il mondo fluttuante e lo spettacolo dei sensi sulla tavola di IYO Restaurant invitano a evadere nel sogno del convivio
di Maria Luisa Basile

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Il “Mondo fluttuante” è un concetto culturale nato in Giappone nel periodo Edo per esprimere la natura fugace della vita e la bellezza dell’effimero racchiuso nel termine “Ukiyo-e”. Nella sua radice si riconosce il nome dell’insegna del ristorante IYO, allusivo invito a godere del momento più sublime di questa impermanenza, a evadere nel sogno del convivio.
Il 2007 segna l’inizio della storia di IYO, l’anno in cui il ristorante viene fondato a Milano da Claudio Liu, all’epoca giovane imprenditore poco più che ventenne proveniente da una famiglia di ristoratori, intenzionato ad aprire una finestra sugli orizzonti di una cucina di ispirazione giapponese di qualità e contemporanea che da allora non è rimasta mai ferma e negli anni si è focalizzata sempre più sull’ingrediente e sull’abilità tecnica di cucina, coniugati allo stile italiano di accoglienza (italiani sono maître e sommelier), tanto da diventare l’archetipo di una ristorazione etnica di qualità elevatissima.
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Il gusto cosmopolita della cucina di IYO è la summa del lavoro di una brigata multiculturale guidata dallo chef Katsumi Soga, classe 1975, originario della prefettura di Shizuoka, ai piedi del monte Fuji. Arrivato in Italia nel 2006, lavora in diversi locali fra cui Royal Hotel Carlton e il banco sushi di Nobu Armani, fino all’incontro con Claudio Liu e l’approdo a IYO nel 2020. La sua è una cucina di stampo Kaiseki, considerata una delle forme più alte di arte culinaria giapponese, apprezzata per l’attenzione alla stagionalità delle materie prime, la cura dei dettagli e la creazione di un’esperienza culinaria olistica, capace di coinvolgere tutti i sensi. I piatti di un pasto Kaiseki sono infatti ideati per esaltare i sapori e le texture naturali degli ingredienti, scelti freschi e di stagione, anche attraverso tecniche di cottura tradizionali giapponesi come griglia, carbonella, vapore. Un ruolo importante gioca poi la presentazione, poeticamente incentrata sull’uso di ceramiche pregiate disposte in modo esteticamente piacevole e armonioso.
Alice Temaki
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Ed è uno spettacolo dei sensi quello che va in scena sui tavoli quadrati in marmo nero percorso da venature chiare proveniente dal Golfo dei Poeti, nella provincia di La Spezia. Alle presentazioni spesso minimaliste della cucina, si contrappone la percezione di una grande complessità di sapori, rispetto per il gusto naturale degli alimenti e ricerca dell’equilibrio fra i cinque gusti giapponesi principali dolce, acido, salato, amaro e umami. Rasentano il misticismo la ricerca e la provenienza di ciò che viene impiegato in cucina (branzino dell’isola d’Elba, Wagyu A5 di Kagoshima, cappesante dalla Bretagna, gambero rosso di Mazara del Vallo, anguilla di Comacchio… ) e ogni piatto è un viaggio intorno a un ingrediente che viene esaltato, onorato, titillato nel gusto e nella consistenza, ma è anche l’incanto di fronte a un abile taglio e a una tecnica padroneggiata con perizia, il tutto accentuato da presentazioni eleganti, in una sublimazione della spontaneità del sapore e dell’autentica cultura giapponese. L’estetica gastronomica giapponese ricorre infatti a valori precisi, come quello delle piccole dimensioni, del minuscolo, della miniatura e di tutte quelle operazioni che tendono a dividere, separare, scindere in piccoli pezzi. All’opposto del cibo occidentale che spesso tende verso il grande, l’abbondante, il prosperoso, quello orientale segue il movimento inverso e si dispiega fino all’infinitesimale. Ne è un esempio l’Alice Temaki, un temaki, però aperto, un po’ come il celebre raviolo di Gualtiero Marchesi che offre allo sguardo il mistero della sua farcitura. Un finger food di forma quadrata – e quindi presentato su un piatto rotondo come vuole lo stile di disposizione del cibo moritsuke – da mangiare con le mani dopo aver arrotolato l’alga nori sugli ingredienti mediterranei posati sul quadrato corvino come su un tappeto volante, a partire dalla protagonista, l’alice, marinata nell’aceto di riso e yuzu, e poi le nuvole di ricotta di bufala campana profumata al wasabi, le foglioline di spinacino novello, uova di pesce volante tobiko e polvere di kombu (un’alga coltivata al largo delle coste del Nord del Giappone). Sul palato, piacevolmente spiazzato, si incontrano e scontrano sapori peculiari del Giappone e nostrane, dall’umami dell’alga croccante alle sapidità casearie della ricotta sino a quelle salmastre e decise dell’acciuga dalla polposità scioglievole come di frutto di dattero mediorientale.
Ika Somen
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Il sipario al carosello gourmet della cucina è una sala dai colori neutri e di eleganza non pretenziosa, quasi a non voler togliere la scena alla cucina e a piatti ormai signature come Ika Somen, reinterpretazione di una specialità dell’isola di Hokkaido e in particolare di Hakodate, un porto dove arrivano grandi pesche di calamari, alimento assai popolare in Giappone. IYO lo traduce in una preparazione insieme fedele e poetica: un sashimi, ossia un crudo di calamaro tagliato sfrangiato in strisce talmente sottili da ricordare un somen, un tagliolino avvolto su se stesso come un nido trasparente sul quale posa un uovo di quaglia che a sua volta gioca con l’idea di un uovo all’occhio di bue al quale il caviale fa da palpebra. Un’esperienza nell’esperienza è l’estensione dei sapori morbidi e vellutati del piatto attraverso un ricco e dolce sorso di sake (da sorbire non dopo aver deglutito come si farebbe con il vino, ma contemporaneamente, come usa in Giappone), in un boccone fresco, setoso e fluido, una combinazione di sapori riconoscibile solo nel cibo giapponese.
Hotate Usuzukuri
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Hotate Usuzukuri è un carpaccio, delicato e vigoroso insieme, di cappasanta che sboccia come un fiore di loto su una vinaigrette allo yuzu, umeboshi e polvere di shiso rosso. Ideato dallo chef Katsumi Soga al suo arrivo, il piatto è un’epitome dei temi insiti nella filosofia del ristorante, come ricerca di ingredienti pregiati, tecnica, disciplina, bilanciamento dei gusti, presentazione essenziale, eleganza. Le cappesante vengono incise con il taglio usuzukuri, il taglio più sottile dell’arte del sushi riservato al pesce polposo di cui mette in evidenza la brillante trasparenza, per offrire al palato una consistenza dal gusto delicato e sottile, in voluto contrasto con le sensazioni citriche e astringenti della vinaigrette (quasi un ceviche), smorzate dai germogli da catturare a ogni boccone per equilibrare i sapori.
Black Toro Chirashi
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Black Toro Chirashi è un sushi “sparpagliato” qui composto in una presentazione di grande raffinatezza che tradisce l’importanza della disposizione del cibo e della presentazione visiva, come sottolineato anche da un grande maestro dell’alta cucina giapponese, Ka’ichi Tsuji, secondo il quale “nella cucina giapponese non c’è niente di più importante del saper sistemare bene il cibo, ponendo speciale attenzione al colore, su piatti scelti in modo tale da valorizzarlo”. E infatti non si può non ammirare l’elegante ciotola nera opaca con disegni dorati che scoperchiata a tavola rivela i riflessi bronzei di uno strato di caviale. Si tratta delle pregiate uova di storione russo Oscietra Royal, una specie originaria di Mar Caspio, Mar Nero e Mar d’Azov, dal carattere molto complesso e rotonde note aromatiche di nocciola. Una texture morbida e felpata posata su una tartare di Ventresca di tonno – la parte più pregiata e grassa del pesce – altrettanto vellutata e a sua volta adagiata sul riso sushi che riempie il fondo della scodella. La presentazione riserva ancora una sorpresa: inseriti nell’intaglio di un blocco di pietra posato a lato della ciotola, strisce di alga nori aspettano di essere farcite con il chirashi. Al palato è velluto su velluto.
Wagyu in tartare
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Il Menu offre diverse preparazioni di Wagyu, la pregiata e tenera carne di manzo nobile giapponese dalla straordinaria marezzatura determinata dalla distribuzione diffusa dei grassi nelle masse muscolari invece che nello strato sottocutaneo. Proveniente dalla prefettura di Yamaguchi nel Sud del Giappone e naturalmente nella categoria massima A5, suggerisce un raffinato richiamo al Piemonte e alla sua Fassona nella Tartare. La polpa, tenera, scioglievole e fondente, si mescola a un’estrazione di mandorla d’Avola che le conferisce una nota tostata di nocciola (ulteriore citazione piemontese) ed è sostenuta da sottili cracker all’amaranto che le fanno da armatura, e zucchine conservate in osmosi e katsuobushi di mela come paggi.
Gyoza di maiale
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Il rito della preparazione a mano della pasta ripiena rappresenta forse il più evidente ponte fra la cultura gastronomica italiana e quella giapponese. Un esempio sono gli Yaki Gyoza, gonfi ravioli di pasta di grano a mezzaluna chiusa a guscio sui sapori gagliardi della farcia tradizionale di polpa di maiale e cavolo cappuccio, completati da una riduzione di salsa di soia e germogli stesi e posati sul piatto. Sapidità nette, decise, che riescono a trasmettere i profumi e i sapori della farcitura nella loro avvolgente pienezza.
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Tecnica di cottura Sumibiyakia applicata a Wagyu e Ventresca di Tonno
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Un’ulteriore immersione nella cultura giapponese oltre che nell’abilità della cucina è la tecnica di cottura Sumibiyaki parola definita dalla somma di ‘sumi’ carbonella, e ‘yaki’ grigliato. Viene applicata sia alla Wagyu sia alla Ventresca di tonno, delle quali preserva succhi e umori, conferendo delicati profumi e sensazioni eteree al palato. In questi piatti forse più che altrove il sapore diviene una percezione particolarmente articolata e complessa, che unisce il gusto e l’olfatto, oltre alle sensazioni regalate in bocca dalle consistenze polpose morbide e fragranti.
Dessert Monte Fuji e piccola pasticceria
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La natura è per i giapponesi un culto antico al quale poeti e artisti danno espressione e in cui l’emozione e la memoria fanno la loro parte. Una venerazione nella quale c’è stata un’evoluzione, un processo che ha forse preso le mosse da un amore iniziale per le rocce e per le pietre. Tutte queste passioni, insieme a una delicata citazione dell’amore dei giapponesi per ciò che è piccolo e in miniatura, sono racchiuse nel dolce Monte Fuji di Luca De Santi, pastry chef o, come ama definirsi, chef dolce e salato, con esperienze in ristoranti stellati italiani importanti fra cui Gualtiero Marchesi all’Albereta e l’Enoteca Pinchiorri a Firenze, Peck e Ratanà a Milano. Dal 2020 crea per IYO un’alta pasticceria nella quale confluiscono sensibilità italiana, tecnica francese, sapori e ingredienti giapponesi. “Gli occhi sono grandi quanto lo stomaco”, afferma un grande conoscitore del popolo giapponese (Donald Richie) e nel dolce Monte Fuji prima ancora di goderli sul palato si ammirano all’infinito i dettagli e i rimandi anche spirituali al monte sacro simbolo del Giappone come pure al Montblanc franco-italiano. Le rocce della montagna sono riprodotte in un trompe-l’oeil di mousse al marron glacé, meringa alla liquirizia e cuore di castagna fresca, in un rincorrersi di cedevoli delizie che franano nel sorbetto allo yuzu (cedro giapponese) e nutrono l’anima quanto le Trentasei vedute del Fuji di Hokusai, raffigurazioni eterne della bellezza effimera.
Rugiada di crisantemi
Lungo il sentiero di montagna
Mi bagna e si riasciuga
E nell’istante, ecco, mille anni
Per me son già trascorsi.
Henjō
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IYO
Via Piero della Francesca 74 Milano
Telefono 02 45476898
Aperto a pranzo e a cena
Giorno di chiusura lunedì e martedì a pranzo
Claudio Liu
Chef Katsumi Soga
Pastry chef Luca De Santi
Sommelier Matteo Cino
© Maria Luisa Basile

 

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