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Litoranea

Enzo Moscato, Litoranea
E quanti piccerilli tene o mare, / orfanelli pesciolini della Litoranea,
acqua salata dentro il pane e sulle ciglia, / stelle di micòsi sul visetto…

Assaggi di Teatro interpreta con gli chef Anna e Claudio Vicina lo spettacolo “La parola canta” con Beppe e Toni Servillo. In scena, testi e canzoni che celebrano Napoli; un esempio, Litoranea di Enzo Moscato
“Angiospérmìa, angiospérmìa, è
coniazione singolare, bizzarra.
Vien su dalla fusione di una stirpe
regale, forestieria coll’indigena,
lazzarona semenza di questa gente
che abita cortili e antichi anfratti lavici.
È qui che la Botanica s’incontra con la
Musica, e l’Araldica
coi versi, i martiri plebei della
Democrazia.
L’Enciclopedia del mare, poi,
è rimasta sincopata, rotta nel diaframma.
Per ogni giorno un foglio, per ogni
foglio un fiore
o veleno o versetto di regale popolare abominio.
E le Balene, sui dorsi dei volumi,
mostri piccerilli di una Bibbia procidiana,
il cui Giona è un pescatore vecchio al
punto da parere un neonato…”


Se estrogeno è un estro che gira
quando ne ha voglia,
ormonico un pifferetto maschile a bocca,
ossidianico un elemento che agisce solo di giorno
e algoritmo un’alga che danza tra i marosi,
questa, allora, è davvero una terra di briganti
e la sua alta chirurgia proviene diritta
dai grammatologi del circolo di Copenaghen.
Del resto, chi cantava “Anna, soror…”
sugli arenili di Sorrento
pensava bene ai gargarismi di Caruso,
un’ottava più sopra del tintinnio dei lampadari.
E non è stato possibile mai furtire una lacrima,
alla Duse o alla Mignonette, ogni volta
che un batò si allontanava dallo
strillante golfo delle Sirene.
Cose che ci rallegrano solo nei giorni di lutto,
quando sesso e diluvio, sesso e diluvio
sono il sesto itinerario possibile
ad eundum Deum
nella Summa di San Tommaso.
E questo qualche sarda lo sa bene,
qualche seppia pure.
I polipi, forse, chissà. Sono tanto aristocratici.
L’acetilene, di notte, li bombarda, li mitraglia,
e loro, oncògeni stupiti, vanno avanti in confusione,
non sanno più che dire né capire.
“Che sse dice? Che sse dice? –
s’informano tra loro -“
“Che sse dice? Che sse dice? A tempesta
mann’a gall’alice!”
Barocca cultura di gesti. Empio mambo
dell’eco/degrado.
Niente. Un tuffo. Una passeggiata sola.
Chi ci sputa sopra è arso. Cioè, va in
paradiso.
Tanto, i guaglioni sugli scogli, hanno
vene di assassini,
azzurre pubescenze.
Li avete visti mai?
Nudi, tra le cozze a Marechiaro, si
finiscono il calore da soli, con un casto
gesto della mano.

“Chi ha visto maie ‘e ccaiuole…”
e le dita corrono sapienti dentro brache nere,
“dicere no a matina, a luce, ‘e ccanzone…”
e la voce si fa erettile, orfica penetrazione,
“quase na faccia tagliata ca se mette
appaura d’o sole…”
e dita e voce e sfregio si danno un
violetto alla Matisse,
scomposte anatomie di festa all’obitorio,
fari sparati sotto il cuore come tracchi
all’intrasatto.
Un cammeo di Assunta Spina ci ricorda
che bastava esagerare agli aggettivi per
campare o per essere.
Moltiplicarli come i pani e come i pesci.
O gli amanti e i tradimenti, tanto per
essere precisi.
I mantelli dei poeti, del resto, si aprono
a campana come quelli dei cafoni,
pipistrelli! sciosciamosche! così dicono
ai Quartieri.
Hanno mani butterate dall’azoto, ulcere
schiattose lungo gli anulari
Dai bordelli scendono, simili a rigagnoli
di sangue,
dai bordelli scendono che sembrano macelli,
schifati da Dio, schifati da tutti.
“Nostra ignuda Natura, tale e quale,
scurnuse…”
accatteno e vénneno, accattano e
venneno costati e cosce, milze, dalla
Bestia senza dazio sui pontoni.
Ecce Homo, lo scemo Ciccillo, viene
trascinato in processione.
Da un letto, poi, da un basso di dolore,
“Appiccia a radio, appiccia a radio…” –
si sente –
“Cagna a stazione, cagna a stazione…”
Un cieco, certo. Luce sospesa ai meri
suoni, capricciose ragnatele.
Santificare, dovrebbero, i pittori e i
musicisti e i fotografi col lampo di magnesio.
Santificare, dovrebbero, gli artisti a quattro soldi,
le scosciate ballerine, le sdentate
sciantose dei Café,
santificare, dovrebbero, tutta la plebaglia
creativa che si esprime tanto per maniera.
La maniera qui, è l’unica parrocchia dove
si affresca il vero.
E poi allo chalet, lo stesso dove
lavorammo, ti ricordi?
Io la chiamo Anna Maria, scrive in continuazione.
Senz’altro una mania, si vede
dallo sguardo.
Fissa con pupille spiritate l’acqua che le sta
di fronte.
Non accetta mai caffè, solo tovagliolini.
Li riempie di formule, di segni.
Un giorno, dice, queste oscure mantiche
tracciate dalla biro,
questa scrittura pensata all’incontrario
del crescere e descrescere del mare
con un cappio di luna, un amo stellare
porteranno finalmente su “quel” corpo,
il corpo di Francesco, l’Ammiraglio
e il livido giallino delle bave, l’argento
sbiadito delle decorazioni
sfolgorerà nel riso delle criature,
i piedi immersi nella melma al Molosiglio,
le grida più cattive ed uncinate dei
gabbiani.

Angiospermia è l’acqua, questa.
Nutrita di guappesche strafottenze,
di pisciate anfiteatrali dall’alto dei muretti
o nel salto di banchine.
Angiospermia perché prolifica alla
10 ph. Mille.
E quanti piccerilli tene o mare, quanti
scarrafune color latte,
meticci e muti, alcuni sciancariati,
qualche altro mezzo prete,
devoto ‘e Dio, forse. Miezzu ricchione.
Quanti aborti dentro la corrente.
Feti aggrinziti, ipocalcificati.
L’acqua tutti i giorni è ingravidata dal
lancio di gamèti misti a urèa
pezzenti facciatosta di sei o sette anni
che trattano le onde come una vagina,
collettiva prostituta, cloaca magna,
Mater Immunnezzarum.
E quanti piccerilli tene o mare,
orfanelli pesciolini della Litoranea,
acqua salata dentro il pane e sulle ciglia,
stelle di micòsi sul visetto
e la bocca pronta ad addentare la più laida
bestemmia.
“A purchiacca ‘e mammeta, a purchiacca ‘e
mammeta fetente…”,
da queste parti, la medusa, infatti, ha
legami molto stretti,
valenze quasi chimiche con gli organi e gli
umori della donna
e l’incontro con i liquidi urticanti,
gli eritemi,
sono allora una faccenda molto antica,
un glorioso marchio mitologico,
oltreché un’impresa precocissima, virile.
“A purchiacca ‘e mare, a purchiacca ‘e
mammeta fetente…”
e il grido si fa sale, si fa rumor di acqua
sporca stessa,
sciabordìo prezioso, dannunziano.
Un tuffo, una bracciata solamente.
Spruzzi, schiamazzi, ammuina.
A largo, appaiono i costumini.
O le natiche translucide, offerte senza
impudicizia agli occhi altrui.
Compatta guagliunera, vermi e vermi,
sanguisughe, pignatte.
Cardellini nfusi che appassionati cantano
“Chi tene o mare, chi tene o mare, è
cuntento e fesso…”

E poi Didone ncopp’e scoglie,
Brigetella degli embargos di Toledo,
don Astarte, don Chisciotte,
e Anna La Bella, per un vaiolo bianco,
raro,
che si specchia in un miroir di mala sorte
negli stagni di Posillipo,
museiformi, aprono i balletti,
scambiandosi di posto
dint’a nuttata ‘e luna.
Ieri, na criatura, lanciandosi sul fondo,
è rimasta prigioniera dei vasi di Pollione –
verderame tranello tessuto dalle orate.
E nanelle saccenti, erette su un comò,
che girano e rigirano
mestoli giganti dentro una poltiglia blu di
Prussia,
lenitive cioccolate di nobili anemie.
“Rien du mer, rien de la mère, rien du mer,
rien de la mère…”
sentenziano raspose, i culetti a mandolino.
È bbona, a sanno sta canzona,
quest’arpeggio lionese
inventato per i figli di Gioacchino.
Scoppia da basso, in fronte all’arenile
una vena d’artificio,
fuochi e fuochi, lampe. Un’immensa
emicrania settembrina.
I guaglioni hanno vene tatuate, pelurie
appena apparse.
Dai pubi gonfiati di recente tirano fuori
granchi,
colonie di batteri, iammarielli tagliati col
limone.
I guaglioni hanno vene tatuate, sole
pigliato a canottiera.
Tra un cespuglio e l’altro, invece, Alì –
che odia e schifa l’acqua, st’acqua marrò,
castana,
straordinariamente figlia di Califfi –
chiude e dilata i pugni nella gola di un
Tedesco,
inginocchiato sul pietrisco, quasi una
preghiera.
“Blute nur blute nur…” sospira, e gli occhi
dei guaglioni,
tutti insieme, vanno a quella voce. A quel
basso singhiozzo
avvertito come urlo.
Tutti insieme si alzano gli occhi. Veloci.
Colombi spaventati da uno sparo.

 

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